Sono ancora molti che sostengono l'equazione attività politica = lavoro, in particolare a sinistra, dove fare il "funzionario di partito" è un vero e proprio mestiere. Ci sono ragioni storiche ben precise per giustificare lo stipendio di Stato ai politici e risiedono nel fatto che, diversamente, soltanto le classi dei nobili o dei borghesi, che disponevano di danari propri, avrebbero potuto occuparsi di politica, tagliando di fatto fuori dalla politica la classe sociale dei lavoratori, che emergeva nell'ottocento ed era priva di mezzi.
Ora questa tesi non ha più ragione d'essere, dal momento che vige la regola della conservazione del posto di lavoro per tutta la durata del mandato parlamentare o amministrativo. In ogni caso nessuno si sognerebbe mai di negare una retribuzione al "mestiere" di politico, ovviamente commisurata all'attività ed ai risultati dell'"Azienda Italia" come ama dire oggi il Ministro Brunetta.
Vorrei ora portare ora la vostra attenzione sul seguente grafico frutto del lavoro di Antonio Merlo e citato dall'articolo de "La Voce":
la linea rossa, che quantifica la consistenza dell'indennità parlamentare rapportandola al valore degli euro del 2005, è rimasta sostanzialmente invariata ad un livello, sinceramente contenuto, dalla nascita cella repubblica fino al boom economico (metà degli anni '60), da lì e fino agli inizi degli anni '70 è quasi quadruplicata, per poi scendere in maniera significativa in corrispondenza con la crisi energetica. Le indennità dei nostri parlamentari hanno quindi ripreso a crescere in maniera pressoché costante dalla fine degli anni '70 fino alla metà del 2000, decuplicando ormai, a parità di potere d'acquisto, l'entità di quanto percepito dai padri della patria! La risibile diminuzione dell'indennità parlamentare intervenuta dopo il 2005 sembrerebbe dovuta maggiormente alla spinta dell'indignazione popolare piuttosto che alla nuova grave crisi economico-morale che ci troviamo davanti e non è tale da poter essere considerata, a mio avviso, un'inversione di tendenza quanto piuttosto di un bieco tatticismo.
Ma quello che fa maggiormente impressione del grafico riportato è la discesa del livello d'istruzione dei nostri parlamentari. La percentuale dei laureati era significativamente più alta negli anni 50 e 60, quando il livello d'istruzione del Paese era assai meno elevato, che non oggi quando, ad un generale accrescimento livello di scolarizzazione si somma l'inflazione del titolo di "laurea", attribuibile anche ad un ciclo di studi post secondaria di solo 3 anni, spesso neppure particolarmente qualificante.
In parlamento si è passati dal 90% di politici laureati degli anni 50 a poco più del 60%, per giunta di lauree "svalutate" ottenibili pure nell'Università sotto casa, in un solo triennio!
Queste considerazioni si legano dunque alle tesi esposte nell'articolo de "La Voce" che, sostanzialmente, mette in luce come il massimo delle energie sia "speso" dai parlamentari per entrare nei palazzi del potere e non per lavorarvi una volta varcata la soglia. Sarà forse anche questo che contribuisce a favorire l'accesso dei rappresentanti di commercio e l'espulsione dei congiuntivi da Montecitorio e da Palazzo Madama?