mercoledì 16 luglio 2008

In Senegal per il progetto "Keur Daba"

Per prima cosa desidero rassicurare gli amici lettori: non ho trovato in Senegal bambini con ventre gonfio, le ossa scheletriche e le mosche che si nutrono delle cispe agli occhi, senza che loro abbiano la forza di scacciarle.
La mia visita mi restituisce un popolo povero, ma in piedi, che porta con se, amplificandone l’evidenza, tutti i guasti della società occidentale. La plastica innanzitutto: ce n’è sicuramente in termini qualitativi meno che in Campania ma è dappertutto, perché nessuno si prende al briga di raccoglierla e di nasconderla.
Poiché tuttavia questo “post” non vuole essere un’analisi “pecorino-fave-sociologia” dei guasti del colonialismo nell’epoca post-coloniale, vi racconterò solo del progetto di cooperazione decentrata che alcuni di voi finanziano con le risorse che prelevo, novello Passator Cortese, dai loro acquisti attraverso il G.A.S..

Per far questo tuttavia devo fare una piccola notazione sul “paesaggio” salendo dal sud a nord da Dakar verso il confine con la Mauritania, nei pressi del quale si trova il villaggio di Ndiawdoune dove insiste il nostro progetto, la vegetazione cambia, i campi coltivati interrotti dai maestosi baobab si fanno più radi, così come gli alberi che si riducono in quantità ed in dimensione, quasi a voler comunicare la “fatica” di vivere con poca acqua.
Il terreno si copre di una sabbia polverosa e di sterpaglia, sotto i rari alberi che presentano una taglia sufficiente si riuniscono le persone e gli animali.

Una città con i viali
La percezione dell’Africa cambia seduti al tavolino di un bar su un fresco viale alberato. È proprio cosi, non ci credete dopo aver letto fino a qui, ma a metà viaggio ci fermiamo nella città di Thiès circa 500.000 abitanti, giardini pubblici e un fresco viale alberato, come dice la canzone “another world is possible…..”

L’incontro con il Presidente della Comunità Rurale
Gli uomini sono tutti uguali, i politici … anche. Arrivati nella comunità rurale di Gandon ci riceve il Presidente nel suo ufficio con l’aria condizionata. Sono tutti molti deferenti con lui, inizia il gioco di sguardi per capire chi deve entrare per primo nel suo ufficio. Esaurito il cerimoniale il Presidente si lamenta di non essere stato tenuto puntualmente informato su quello che accade al “villaggio con l’irrigazione”, è vero, i funzionari locali dell’ONG CISV che seguono il progetto fanno pubblica ammenda, ma la circostanza è resa ancora più d’attualità dalle prossime elezioni locali che si terranno nella primavera 2009.
Anche qui come da noi si stanno preparando a sparare tutte le “cartucce elettorali”. Se è vero che l’informazione è una risorsa, nel nostro caso per riprendere la metafora è “polvere da sparo”.

Al villaggio di Ndiawdoune
Arriviamo al villaggio, povere case ma dignitose, costruite in prevalenza con mattoni di cemento al termine di una pista che si imbocca a lato della strada statale. Posteggiamo sotto un albero, proprio davanti all’unico negozio. Mi dicono che anche questo non c’era e che è nato dopo l’insediamento del progetto. Se pensate che il commercio (di ogni cosa) è una delle attività più praticate dai senegalesi, vi potete ben immaginare quanto povero dovesse essere il tenore di vita di un villaggio di 300 abitanti senza neppure un negozio.

Quello che mi ha colpito più di tutto è stato lo sguardo di Mawlouda Fall, la presidentessa dell’impresa femminile nata col progetto, è lei che ci ha accolto assieme agli uomini al nostro arrivo, è lei che portava le notizie migliori, anche se non poteva indossare la “corona del trionfo”.
Il progetto “Keur Daba” ha ormai concluso il suo secondo anno di attività e anche quest’anno il raccolto agricolo non ha dato i frutti sperati. Gli uomini del villaggio sono riusciti, come nella stagione precedente, a restituire il prestito ottenuto per le sementi, i concimi, ecc … ma non hanno
realizzato il guadagno sperato. Hanno infatti dovuto lottare contro i capricci del tempo e la decisione di altri uomini che regolano la portata del fiume Senegal. Il rilascio di acqua dalle chiuse a monte è stato così scarso da costringerli a scavare una “trincea” in modo tale che un po’ d’acqua potesse filtrare dal letto del fiume fino al punto di pescaggio della pompa installata con il progetto. L’acqua tuttavia filtrava lentamente e la pompa ha potuto funzionare solo ad intermittenza, non consentendo un’irrigazione ottimale delle colture. In quel momento erano in pieno sviluppo due coltivazioni, quella delle cipolle, nei terreni di nuovo impianto in cui si è allargato il progetto e quella delle arachidi, dove nell’anno precedente erano state coltivate le cipolle. E’ stato allora che si è dovuto prendere la difficile decisione di abbandonare una delle due colture per riuscire, con la poca acqua disponibile, a portare a termine l’altra. Si è dunque optato per salvare le arachidi.

Le donne di Ndiawdoune nel primo anno di progetto hanno affiancato gli uomini nelle colture dei campi, mentre nel secondo anno sono state coinvolte in un’attività specifica. In un primo tempo si era pensato a dei pollai attigui alle abitazioni, ad integrazione del reddito familiare (in po’ come facevano un tempo le nostre nonne), invece loro, vincendo anche le titubanze dei tecnici locali del CISV, che temevano per le malattie, hanno optato per il “lavoro di squadra”, mettendo insieme le risorse e costruendo un pollaio collettivo che può ospitare fino a 600 animali. Concrete e prudenti hanno comperato 250 pulcini che, a 45 giorni, una volta ingrassati, sono stati venduti con grande successo (questa notizia è arrivata persino al Presidente della Comunità Rurale, quello che si lamentava di non avere notizie). Al nostro arrivo a Ndiawdoune il pollaio era di nuovo libero, perfettamente pulito, con la lettiera già predisposta per accogliere un infornata di altri 250 pulcini da tirar grandi e rivendere al mercato. Ancora 250 pulcini e non 500 o più come consentirebbe la capienza del pollaio perché “sono donne è meglio andarci piano”, come direbbe un uomo di qui (e non solo forse), ancora 250 e non di più, perché andiamo incontro alla stagione delle piogge e non voglio “cattive sorprese” a causa delle malattie, dice la Presidentessa.

Saint Louis
Saint Louis, un milione di abitanti, è la città più vicina al villaggio di Ndiawdoune costruita sul delta del fiume Senegal, il suo nome la dice lunga del suo passato coloniale. Di quei tempi rimangono ancora vecchi palazzi ormai in rovina, quando non sono stati acquistati da società, quasi mai senegalesi per farne alberghi per portafogli, quasi mai senegalesi, e un lungo ponte in ferro a più arcate che rappresenta la porta d’accesso alla città.Il ponte, nella parte centrale, era girevole, per permettere il passaggio delle imbarcazioni più grandi e la loro risalita del fiume. Mi dicono che lo è ancora, ma mi permetto di dubitarne, visto che la ruggine ha conquistato ogni centimetro quadrato del manufatto, corrodendolo, in alcuni punti fino in profondità.

Ho molte immagini ancora negli occhi di Saint Louis e molti racconti, ve ne restituisco solo sue per mantener fede all’impegno di parlare solo delle cose che hanno attinenza con il progetto: le povere case, alla periferia della città, dove le donne puliscono ed affumicano il pesce; un girone dantesco di puzza e fuliggine ma che non doveva essere molto diverso da quello di qualche decina di anni fa quando anche sulla sponde dei laghi insubrici si preparavano i Misultitt o Misoltini e il racconto dei “disperati” che in piccoli gruppi eludono la sorveglianza congiunta delle marine senegalese, spagnola e italiana per riunirsi di notte, al largo, nei viaggi della speranza (o forse sarebbe meglio dire della disperazione) All’ insegna di un motto che in lingua Wolof A Barça ou a Barsakh “A Barcellona o all’inferno”

A Dakar
Tornati a Dakar ci toccano i giri ufficiali, quelli con giacca e cravatta, mi sento un “trofeo” vestito da matrimonio (o da funerale, lascio a voi decidere). Si comincia con l’ufficio cooperazione dell’Ambasciata d’Italia, che qui in Senegal ha competenza anche per Capo Verde, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mali e Mauritania. Parliamo con il direttore, molto gentile e colloquiale, del più e del meno, ma da qui, solo immaginare il villaggio di Ndiawdoune è come cercare di vedere i microbi senza il microscopio. Godiamo un’oretta di aria condizionata e ci lasciamo con l’impegno di “tenerci informati”
Nel pomeriggio siamo al “Ministero per la Cooperazione Decentrata” e altre cose tipo, le politiche per la famiglia e materie affini che non ricordo bene. I controlli all’esterno sembrano più di facciata che per l’effettiva sicurezza, meglio, vuole dire che il Senegal non si sente minacciato. Non mi chiedono neppure la carta d’identità, farà forse fede per me la mia pelle bianca. Veniamo condotti al cospetto del Ministro accompagnati da Mamadou Ndiaye Presidente dell’associazione Dabafrica Senegal e da Jupiter Yade Segretario Generale della stessa Associazione, visibilmente emozionati per l’onore che viene loro concesso. E’ con noi anche Andrea Bessone, responsabile per il Senegal dell’ONG CISV che cura per noi in loco il progetto, sembra il più a suo agio nella situazione perché io, vestito a parte, sono un “tecnico” prestato a rappresentare un politico pro-tempore di riferimento e la cosa mi sta molto stretta anche quando “gioco in casa”.

Il Ministro è perfettamente vestito “all’occidentale”, ci accoglie in modo garbato e affabile, ci dice che anche lui è della regione di Saint Louis nella quale si trova il villaggio del nostro progetto, anche la sua segretaria è di quelle parti …. una riunione in famiglia insomma! Scherzi a parte ci parla del programma di autosufficienza alimentare lanciato dal suo Paese e sostiene che è proprio dalle regioni nelle quali stiamo lavorando che si aspettano, con una migliore gestione delle acque del fiume Senegal, un importante contributo. Non ci perdiamo in tante chiacchiere, la riunione è breve, il taglio è pragmatico, il Ministro ci assicura il suo appoggio nel caso incontrassimo delle difficoltà, per raggiungerlo basterà affidarsi alla sua segretaria per la quale, parole del Ministro, “oltre che un dovere è un onore poter essere utile ai suoi villaggi d’origine”.

La Senatrice
Martedì parto alle 17,30 per onorare l’invito a cena ricevuto dalla senatrice Ngone Ndoye il giorno del nostro arrivo, Donatella la mia collega con esperienze africane “getta la spugna” dopo una giornata passata sotto il sole a picco. A me tocca …, come dice lei, sono “il capo”.

Per arrivare a casa della Senatrice la strada è intasata e il nostro taxi “rattoppato” lascia la via principale e s’impegna in una gimcana tra cumuli di pattume, ferraglie e materiali vari che ricordano tantissimo il luogo nel quale erano riuniti i rottami delle navi spaziali nella serie “Guerre stellari”. Dopo un’ora e venti di questo “sbattimento” giungiamo al luogo dell’ appuntamento, lì troviamo il mullah-segretario della Senatrice, cambiamo macchina e continuiamo il viaggio.
Giunti a destinazione sono ormai le 19,15, la Senatrice non c’è ancora, ci fanno accomodare in un salotto quasi buio, accendono il ventilatore da parete e la televisione. Tra le litanie lamentose e le lodi alla Senatrice del mullah, la versione spagnola di “saranno famosi”, una telenovela brasiliana e qualcos’altro in lingua Wolof trascorrono le successive due ore. Verso le 21 arriva la nostra ospite, anche lei è rimasta intrappolata nel traffico.

La Senatrice è una donna affascinante, molto alta e lineamenti del viso raffinati, gli anni e i quattro figli avuti quando era ancora molto giovane ne hanno un poco appesantito la figura ma si muove elegantemente, avvolta nei suoi abiti di foggia africana.
La conversazione è amabile e vince la mia stanchezza. Oltre ad essere senatrice Madame Ndoye è anche sindaco di una delle più grandi municipalità di Dakar, (quasi un milione di abitanti) che amministra da vicino: conosce a memoria il numero degli alunni nelle varie scuole, sa quante sono le moschee, le grandi moschee, le chiese, le sinagoghe, conosce il numero e i problemi dei pescatori, sa quante sono le piroghe che ogni giorno prendono il mare per recarsi a pesca, ecc… La sola cosa che confessa di non sapere è la superficie del suo comune, perché, confessa, i confini non sono ancora stati chiaramente definiti.
La Senatrice insiste sulla necessità che i politici siano i primi a dare il buon esempio e, per chiarire il concetto racconta che in Senegal parlamentari e alti funzionari per ragioni di prestigio legate alla loro carica hanno il diritto di viaggiare in aereo in business class. Se, fino al fallimento di air Senegal, questo poteva avere un senso perché trasferiva risorse dallo Stato alla compagnia di bandiera, ora il “prestigio senegalese” va ad ingrassare a caro prezzo Air France. Lei ci dice dunque di aver deciso di optare per la classe economica, almeno per i voli africani.

M.me Ndoye racconta che domani testimonierà a favore di una campagna a favore del contenimento delle nascite; il mullah inizia a guardarla torvo. Lei se ne accorge e “aggiusta il tiro”: non si tratta di contenere le nascite ma di ritardare la nascita del primo figlio e frapporre un maggior lasso di tempo tra un figlio e l’altro (se non è contenimento delle nascite questo!!! J) , il mullah “abbocca, sorride felice e si rimette a rosicchiare con i suoi dentini piccoli.

La cena scorre leggera, ci servono un pesce locale, il “Thiof”, una specie di branzino, che solo io mangio con le posate; mi spiegano che è tradizione succhiare ogni lisca, quando si mangia il Thiof. Seguono una serie di complimenti da parte di tutti per il per pesce, splendidamente cucinato da un ristoratore locale, nel cui mezzo la senatrice si alza facendomi il grande onore di offrirmi un pezzo del suo Thiof. Abbozzo una difesa, poi capisco che non posso rifiutare (un po’ come nel nostro Sud), allora mi arrendo docile. A quel punto la Senatrice stacca un grosso pezzo del suo pesce torcendogli la spina dorsale e lo depone nel mio piatto.
Da qui in poi la cena si fa in salita: l’enorme Thiof, con il “bonus Senatoriale”, i commensali che, una volta rotto il ghiaccio, cominciano a parlare in Wolof (una delle lingue locali), il caldo umido, il “terrore” per una bevanda analcolica con ghiaccio che, a queste latitudini, è sempre a rischio dissenteria, fanno il resto.

Intorno a mezzanotte vengo caricato con gli altri ospiti sul potente Suv della Senatrice, il suo autista si dirige spedito verso il centro della città. Leggo il quadrante dell’auto, la temperatura esterna è di 28,5 gradi, quella interna è regolata su 17,5. Capisco che è questa l’ultima prova che devo affrontare nella giornata. All’una, finalmente, è finita.

Ringraziamenti
A Donatella che la più africana degli italiani che io conosca, se quando è a casa sembra che 5 anni di Angola, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, non l’abbiano cambiata più di tanto dovete vederla in azione “sul campo”.

A Ussu il più europeo degli africani che abbia mai incontrato, a volte perfino con una venatura di pignoleria svizzera, andare al mercato con lui è un piacere, si finge indifferenza mentre lui contratta per voi, a lui devo i miei sandali, comodissimi. Chissà se mi aiuteranno a mettere in pratica quel proverbio indiano che dice più o meno: ogni volta che vuoi giudicare qualcuno, cammina prima per tre lune nei suoi mocassini.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Rappelez, s'il vous plait, mon nombre téléphonique: 5355764!

Anonimo ha detto...

Hei, Mullah, va a cagà!

Lakeside ha detto...

Bravo Cirano, ottimo resoconto. Grazie.
p.s. ci sono nuovi post da me...

Unknown ha detto...

Grazie per farci viaggiare un po' con te! Valeva la pena di farti andare fin laggiù!
Mi commuovono alle lacrime queste donne: ha ragione Vandana Shiva quando parla di principio femminile e di politica della vita contrapposta a quella dello sviluppo per lo sviluppo

Cirano ha detto...

Ben tornato "pesciolino" a navigare nelle nostre acque dolci.

Unknown ha detto...

Che viaggio affascinante!

Cirano ha detto...

Grazie "ragazzi" anch'io leggo sempre il vostro blog e quello di "io e la transizione" anche se non commento vi seguo con affetto e interesse.